Era da un po’ che un romanzo non mi sconvolgeva tanto. Questo racconto delle vite di otto generazioni di donne Georgiane, che spazia nell’ex impero sovietico e tracima fino in Europa, è riuscito a darmi un dolore interiore tale che causava fastidio in certi momenti.
La famosa cioccolata calda creata dal patriarca di questa famiglia fa da filo conduttore al susseguirsi di storie, perlopiù drammi, che si dipana attraverso il secolo scorso, incontrandosi e scontrandosi con i fatti che più hanno cambiato le società, sia ad Est che a Ovest. E la cioccolata, che viene detta portatrice di sventure, fa da archetipo alle poche situazioni felici che appaiono in questo libro, che sembrano fin dall’inizio destinate a una rapida degenerazione verso sventure che invece durano tempi infiniti e assumono spesso l’aspetto di una lentissima discesa agli inferi.
L’autore sembra suggerire che la felicità è una situazione innaturale e quasi indesiderabile perché ci illude per brevi periodi per poi lasciarci in balia di eventi avversi. Nel momento in cui invece riusciamo a prendere confidenza con la tragedia quotidiana riusciamo tutto sommato a controllare la caduta e a rimarginare le ferite causate dagli insulti della vita. E in effetti le lunghe pause del filo narrativo in cui ci troviamo a ruotare attorno a ordalie senza fine sembrano gli unici momenti di relativa stabilità, durante le quali i protagonisti provano a riprendere il controllo delle loro vite.
Un aspetto strano di questo romanzo è anche lo spessore e la complessità dei protagonisti femminili in confronto alla pochezza di quelli maschili che sembrano personaggi dei cartoni animati, tagliati con l’accetta. Viene quasi il dubbio che la cosa sia voluta, che si sia voluto mostrare un universo femminile variopinto e complesso in rapporto ad un mondo maschile piatto e in bianco e nero.
In conclusione un libro da rileggere molte volte, non facile ne accattivante ma pieno di emozioni.
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