Il racconto del Vajont

Mia cugina Cristina nacque il giorno della tragedia del Vajont; l’ho sentito ripetere decine di volte da mia madre, che è di Udine, e dai suoi parenti. E molte volte mi sembrava di cogliere una nota di tragico rispetto nel pronunciare quel nome, ma non ne comprendevo il motivo. Quando anni dopo vidi in televisione lo spettacolo di Paolini compresi la tragedia e capii le parole e le espressioni sui volti dei miei cari. Il nove ottobre millenovecentosessantatre, venticinque milioni di metri cubi di acqua spazzarono nello spazio di pochi minuti cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Con tutte le case e le duemila vite che contenevano.

Marco Paolini, attore e grande affabulatore, seppe raccontare questo olocausto, come lui stesso lo definisce, portando me e tutti gli altri spettatori nei luoghi ed ascoltando le persone che nei sette anni precedenti lo prepararono o contribuirono al suo compimento. Tutto questo usando l’arte antica del monologo, del racconto in forma di fiaba che i più fortunati hanno conosciuto dai genitori o dai nonni. E la forza di quelle parole è stata fissata sulla carta da questo libro, dove troviamo tutti i protagonisti di questa tragica farsa, dal ministro al contadino.

La scena che rimane stampata nella mia mente è la raccolta dei corpi il mattino dopo sul ponte della Priula:

… i bordi del ponte della ferrovia, e quelli della strada, che son lì, affiancati, e le sponde del Piave, sono nere di gente, civili e militari di leva. Girati verso l’acqua, spalla a spalla, ognuno una pertica in mano, di legno, lunga. Venute fuori da dove? Dagli orti? Con quelle pertiche fanno un pettine per fermare i morti che, in mezzo al resto, a decine vengon giù sul filo della corrente… E altra gente, con i rampini, li allinea sugli argini del fiume. Da ogni paese del Veneto, lungo il Piave, quel giorno, la gente ha mollato la vendemmia.
"Corri a vendemmiar giù in Piave, per questo che è il più grande funerale che mai abbia attraversato questa terra!"
Dopo Caporetto.

Questo disastro non fu una disgrazia, come scrisse Montanelli e tutti i giornali italiani, ma ebbe molti padri ed una madre certa: il profitto. Come Tina Merlin andava denunciando da anni, molti erano ben consapevoli del rischio, ma nessuno mosse un dito per cercare di modificare la successione di eventi che portò al tragico epilogo. E toccò alla gente comune raccogliere i poveri resti di chi perì per l’arroganza dei potenti. Come a Ustica, come a Marghera, come a Bophal, luoghi di altri martirii magistralmente raccontati da Paolini nelle sue opere.

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