Jacaranda

Ho letto L’albero dei fiori viola con una consapevolezza: io ero lì mentre molte delle storie narrate avvenivano e pur conoscendo parte della storia e credendo di poter conoscere quei luoghi e quelle persone non ho mai davvero pensato che la realtà potesse essere così dura.

Il libro si muove avanti e indietro tra i primi anni ottanta del secolo scorso, quando la rivoluzione era da poco conclusa e il regime aveva trascinato il paese nella disastrosa guerra contro il vicino Irakeno, e gli anni dieci, quando i giovani, risvegliati da un sommovimento che avrebbe generato le primavere arabe in molti altri stati arabi, avevano cercato il cambiamento a rischio della loro stessa vita. Due generazioni contigue accomunate dalle stesse lotte, seppur le prime nate dalla disillusione di chi era stato tradito da quelli che pensava fossero i liberatori, mentre le seconde generate da chi sotto quell’oppressione ci era nato.

La prima generazione pur avendo subito atrocità era restia raccontarle, in parte per la consapevolezza di aver contribuito a generarle e in parte per la consapevolezza che se avessero condiviso qualcosa l’orrore sarebbe tornato a smembrare loro e le loro famiglie. Ho conosciuto alcune di queste persone, che anche se cercavano di non far affiorare nulla lasciavano trasparire involontariamente il loro anelito verso un’altra vita che un tempo avevano pensato possibile.

La seconda generazione in mezzo a quelle crudeltà ci era nata, crudeltà rappresentate dal luogo simbolo dell’oppressione dove nasce la protagonista: il carcere di Evin a Tehran. Eppure non ci si è abituata, ha conservato degli anticorpi che hanno causato il rigetto e portato alle proteste degli anni dieci e successivi. Molte volte durante queste proteste io ero a Tehran, ho potuto, da straniero, respirare quell’aria. Ho visto più di una volta giovani donne e uomini lasciare gli uffici dove io ero per lavoro per andare alle manifestazioni, ho augurato loro buona fortuna. E li vedevo poi ritornare con il corpo piagato dalle bastonate dei Basij. Basij che vedevo sfrecciare per strada in gruppi in sella alle moto in tenute antisommossa, sapevo delle loro violenze, delle torture e delle morti.

Leggerlo in questo libro ha reso però tutto più reale, più nauseante. Così come è nauseante e frustrante la consapevolezza che se quei giovani ci fossero riusciti, se davvero avessero sconfitto il regime molto probabilmente sarebbero a loro volta rimasti sconfitti, una seconda volta. Nel secolo scorso la cacciata dello Scia, che stava svendendo il paese alle potenze occidentali e affamando la nazione, aveva causato l’arrivo dei pretacci che ammorbano ancora oggi il paese. Guardando a cosa succede in Siria, Libia, Tunisia e altri paesi arabi il timore è che se anche questi ultimi andassero via potrebbero aprirsi baratri ancora più profondi.

E questo gli Iraniani lo sanno bene, e pur supportando i loro giovani capiscono che un’altra rivoluzione li metterebbe in balia di altre forze che li potrebbero veramente distruggere. E quindi le soluzioni che rimangono sono due: l’acquiescenza o la diaspora. Entrambe dolorose, entrambe foriere di un destino che comunque vada appare oscuro.

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