Quelli che hanno visto la battaglia di Pradis

Clauzetto, dicembre 1917

Un uomo che veniva a Clauzetto da le casere di Pradis, entrò in paese e disse: “La gente scappa da tutta la Carnia perchè i Bosniaci sono già a Coneglians”.

La notizia era la conferma d’altre voci sinistre che correvano da due giorni. Ma in quella sera, era il 27 ottobre del ’17, un sabato, si vide il cielo rosseggiare dalla parte di Udine, giù giù sino al mare. Le retrovie di due Armate bruciavano.

Clauzetto, un Comune che ha mandato braccianti a lavorare persino sulla Transiberiana, è a mezza costa sulle Prealpi carniche: a valle guarda la piana fra il Tagliamento e il Meduna e vede brillare, sotto, i lumi di Spilimbergo, a monte ha una spalliera di creste che si intrecciano e si sormontano finché si affacciano alla depressione che il Tagliamento forma tra il largo di Tolmezzo e la svolta di Venzone. Per Clauzetto, scendendo da Verzegnis, San Francesco e Pielungo, passa una strada sussidiaria della nazionale che collega Udine coi valichi della Carnia e della Pontebbana: non è un passaggio comodo, attraversa forre selvagge nel cui fondo spumeggia l’Arzino, ma una rotabile, ereditata dalla guerra, permette da qualche anno il transito delle automobili.

A Clauzetto la gente voleva scappare sino da domenica. Qualcuno si pose a calmar gli animi: prima che i mucc passassero il Tagliamento, c’era tutto il tempo di arrivare, per la montagna, a Tramonti e a Claut. Il paese si vuotò lunedì mattina, ch’era il 29, e la carovana era da qualche ora in marcia verso il Meduna, quando il cursore di Tramonti di Sotto venne, tutto affannato, incontro ai fuggiaschi: c’erano già gli Austriaci sul Monte Rest. Che fare? I più decisero di tornare indietro sino a Campone, altri salirono agli “stavoli” di Pradis, dove c’era una caverna capace di ricoverare una compagnia, e vi si installarono con pentole e masserizie, in attesa degli eventi.

Viene il dì d’Ognissanti, passa quello dei Morti. Il tempo è matto: un giorno fa sole, un giorno diluvia, uno per serie. La sera del 3 novembre alcuni si avventurano sino a Clauzetto: qualche casa si riapre, qualche camino fuma nella notte misteriosa. Il mattino del 5, mentre il buio è ancora folto, una voce entra nelle poche case abitate: “I Prussiani vengono su da Vito d’Asio”.

Un parente dell’Imperatore

Questa volta son proprio loro. Precede una pattuglia, poi avanza una compagnia: è la Divisione dei cacciatori imperiali, equipaggiata come per una rivista: elmi d’acciaio, sottogola abbassato e fucile a spall’arm. Marciano per quattro: i pastrani rimboccati fanno vedere che ogni soldato ha ginocchiere di cuoio giallo e stivaloni alla russa.

Vogliono acqua. Gli ufficiali ordinano che gli abitanti dispongano sulla soglia dei secchi colmi: passando, ciascuno attinge e riempie la borraccia. La sfilata prosegue, pesante e compatta. Gli ufficiali si danno grandi arie, come se fossero sui marciapiedi dell’Unter den Linden, hanno due dita di colletto fuor del bavero e si girano tutti d’un pezzo: forse qualcuno porta la bustina. Dei soldati, ve n’ha d’ogni tipo: alcuni sono imbronciati e taciturni, altri hanno la barzelletta pronta per far ridere la squadra. Un “feldwebel” trae dal pastrano un ombrellino da signora e lo agita in aria: “Questo regalare a Cadorna”.

E’ mezzogiorno. La coda della Divisione ha appena svoltato dietro la chiesa, per la strada che mena a Pradis, e già incominciano a passar le carrette, piccole, a due ruote, trainate da cavalli magri e nervosi. Arriva un generale con lo Stato Maggiore: i cortili sono invasi da cavalli e da ordinanze, le cucine sono occupate da squadre di cucinieri, che fanno fuoco con le sedie e le porte. Dalla strada si ode il passo cadenzato di altri battaglioni che salgono: ogni tanto il fragore di un traino d’artiglieria.

Poco dopo il cannone tuona improvvisamente dietro il Monte Pala, ch’è a tramontana di Clauzetto e lo sovrasta. Da un’istante all’altro il paese è in trambusto. Soldati di sanità irrompono di corsa, rovistano le case in cerca di tavoli e di panconi, abbattono a spallate le porte del Municipio e della canonica e infiggono sugli stipiti gli stendardi della Croce Rossa. Cominciano ad arrivare feriti, quali in barella, quali sorretti da compagni. Tutti sono eccitatissimi. Si odono gli ufficiali imprecare contro gli Italiani.

Che cosa è successo? Un battaglione che marciava da Pradis verso Pielungo, è stato preso sotto il fuoco delle mitragliatrici italiane. Tra i morti c’è un maggiore imparentato con la casa imperiale. Gli ufficiali sono furibondi. Si sono messi in testa che siano stati i borghesi a sparare: tutti gli uomini siano arrestati. Il cannone continua a tuonare. Ora crepitano le mitragliatrici, a raffiche rabbiose: sparano a nastri interi. Ma allora non è più una scaramuccia: allora è una battaglia.

Era infatti una battaglia. Le avanguardie dei cacciatori imperiali s’erano scontrate con le avanguardie di una colonna italiana, formata da due Divisioni, la 63ª e la 36ª, che da Pielungo tentavano di aprirsi il passo verso Clauzetto e la pianura.

Ma qui occorre tornare indietro di qualche giorno. L’alba del 24 ottobre aveva trovato la 36ª Divisione di fanteria del generale Taranto in posizione di difesa a oltranza alle testate delle valli Fella, Dogna e Raccolana: esse sbarravano il valico della Pontebbana e proteggevano a oriente il Canale del Ferro, nel cui fondo scorre la strada nazionale: Chiusaforte è la chiave di questo complicato nodo di valli.

La lotta nella tormenta

Lo sfondamento di Caporetto scoperse, da un’ora all’altra, il fianco destro di queste truppe formate di fanti, bersaglieri e alpini, un battaglione dei quali, il Val Fella, reclutava i propri uomini sul luogo, così che questi friulani vedevano la difesa della Patria identificarsi con quella del focolare, della donna, della stalla, combattevano insomma alle porte di casa. La difesa fu accanita. Quando il 27 ottobre, tre giorni dopo Caporetto, queste truppe ebbero l’ordine di ripiegare, la linea ch’esse tenevano era quasi intatta. La resistenza s’era concentrata alla Sella Nevea, alta 2000 metri, una porta della montagna tra i pilastri del Montasio e del Canin: era una di quelle posizioni d’onore sulle quali non c’è che la morte che dispensi dal combattimento.

Dall’altra parte il generale Krauss era alquanto nervoso. Dal suo comando tattico dettava rapporti in cui si leggevano, tra le righe, l’impazienza e il dispetto.

“Alle due è incominciato l’attacco in Conca di Plezzo. Nevica. I proiettori si sforzano indarno di squarciare con la loro luce spettrale il fitto della nebbia… Sul mattino le condizioni atmosferiche sono andate sempre più peggiorando. Più tardi giungono buone notizie dalla vallata, ma sfavorevoli dall’alto dei monti… Le truppe della difesa resistono sempre validamente…”

Il tempo è veramente orribile. La bufera è cessata, ma un vento gelido spazza le creste e fa turbinare la neve sui valichi. Le sofferenze della truppa sono spaventose: ogni tanto qualcuno stramazza al suolo fulminato da un colpo di freddo. Tuttavia si resiste. Lo stile dei rapporti di Krauss è sempre più irritato. “La 10ª Armata chiede rinforzi d’urgenza a favore del suo distaccamento impegnato sotto Nevea. Il comandante di quell’Armata è stato invitato ad agire energicamente; di conseguenza le truppe di quell’estremo distaccamento d’ala, procedendo da rio Seebach, hanno attaccato Sella Nevea, incontrando però seria resistenza rimpetto alle difese degli Italiani al valico…”

Nel frattempo i Tedeschi erano a Cividale e l’indomani sarebbero entrati a Udine. Il ripiegamento era inevitabile. I difensori cominciarono a scendere col cuore gonfio: di tratto in tratto si levavano le grida dei feriti che supplicavano di non essere abbandonati. Nessuno li avrebbe più raccolti, poveri martiri, nemmeno il nemico: morire di freddo e di fame era oramai la loro sorte.

Due Divisioni accerchiate

In fondo valle le donne aspettavano coi bambini in braccio, quelle fiere e dolci donne friulane che chiamano “frut” la loro creatura. I mariti erano affranti di insonnia e di stanchezza. Fino a Chiusaforte fecero la strada in compagnia : si vedevano le donne curve sotto la gerla, da cui spuntavano esserini spauriti, le mani aggrappate allo zaino del babbo. Più tardi al ponte di Braulins ch’è a monte di Osoppo, una di quelle dolenti, affranta di stanchezza, appoggiava la gerla alla spalliera del ponte. D’un tratto s’ode un urlo disperato. Una cinghia s’era spezzata e la gerla, capovolgendosi, aveva rovesciato nel fiume ciò che conteneva: una creaturina di due anni che fu vista annaspare con le piccole braccia nel vuoto e sparire in un attimo nei gorghi vorticosi. Nella disperazione di quella madre gli spettatori videro la tragedia del Friuli calpestato e invaso.

Nella notte dal 29 al 30 la Divisione passò il Tagliamento e si schierò fronte a est a difesa del fiume, fra Trasaghis e Mena: aveva alla sua sinistra, da Mena sino al ponte di Tolmezzo, la 63ª Divisione del generale Rocca, traslocata in fretta da Palmanova per chiudere la falla che s’era aperta fra la Conca di Plezzo e le alture di Gemona.

Da quel momento le due Divisioni ebbero in comune la fronte e la sorte. Isolate dalla pianura oramai invasa dal nemico non avevano che una sola via di scampo: la strada dell’Arzino che per Pielungo e Clauzetto porta alla valle del Meduna. Ma il Tagliamento resisteva anche a sud o era già stato varcato dagli invasori? Chi aveva in mano i ponti di Pinzano, di Spilimbergo e della Delizia? La risposta a questi quesiti non sarebbe mai più pervenuta: giunse invece, nelle prime ore del 4 novembre, un ordine di ritirata, nel quale si accennava a un precedente ordine non ancora arrivato.

Il nemico in anticipo

Il movimento cominciò a scaglioni, sotto la protezione del forte di monte Festa che continuava a resistere bravamente. Aprivano le marcia due battaglioni di alpini friulani, Il Gemona e il Val Fella: il grosso era composto di fanti, di bersaglieri, di cavalleggeri e di altri alpini; truppe eccellenti, temprate da due anni di guerra sul Carso e sugli Altipiani.

I Tedeschi avevano preveduta e parata la mossa. Forzato il passaggio di Cornino, per la comoda strada pedemontana di Forgaria e Vito d’Asio, la Divisione dei cacciatori imperiali raggiungeva Clauzetto fino dal mattino del 5 e scantonava nella valle dell’Arzino. Il nemico aveva manovrato in modo da sorprendere i nostri alla svolta della valle. La via dello scampo era chiusa: bisognava che i nostri se l’aprissero con le armi. Tragiche giornate del 5 e del 6 novembre alla stretta di Pielungo e ai pascoli di Pradis, quanti Italiani, oltre ai superstiti, conoscono la vostra gloria sanguinosa? Dai combattenti, completamente circondati, nessun messaggio poteva giungere: occorreva aspettare le notizie dal nemico. “Soltanto l’altro ieri sera i cannoni italiani hanno cessato di tuonare”, diceva il bollettino austriaco dell’8 novembre, rendendo omaggio al contegno di “un valoroso gruppo italiano, comandato dal capo della 36ª Divisione”, che era riuscito a mantenersi “parecchi giorni appoggiato dalle opere del Monte San Simeone”, a sud di Tolmezzo, “contro gli attacchi travolgenti delle nostre truppe da montagna e dei cacciatori germanici”. Cacciatori erano e perciò s’erano appostati come a caccia, per sorprendere al varco la selvaggina italiana. Il costone di Pradis, fra monte Pala e monte Dagn, fu guarnito da una miriade di mitragliatrici disposte a semicerchio: intanto due battaglioni della guardia prussiana risalivano la strada di Pielungo, incontro agli Italiani.

Era il mezzogiorno del 5. Le avanguardie s’incontrano e fanno fuoco: da un’istante all’altro il combattimento crepita a cavallo della strada e si propaga per le alture d’intorno. I Tedeschi cominciano a cadere, falciati dalle mitragliatrici. Imprecazioni, grida di rabbia si levano dalle file prussiane. Gli ufficiali sono furiosi perchè la truppa vorrebbe retrocedere. I nostri devono far economia di cartucce: e avanti all’arma bianca, allora, avanti alla baionetta contro i cespugli di noccioli, contro i muretti delle malghe, contro i fienili e i fossati.

I Tedeschi indietreggiano. Sotto, ragazzi, la strada è aperta, a Clauzetto vedremo il piano, a Maniago troveremo la cavalleria! Alle ventitre sono già oltrepassate le case di Forno, le pattuglie si inerpicano per il costone di Col Orton. L’alba del 6 novembre è tarda a venire, perché il cielo è gonfio e pesante. “Passeremo?”, mormorano i nostri, coricati dietro ai cespugli, le facce scavate dal digiuno, le mantelline inzuppate di pioggia.

L’ultimo assalto

Comincia a far giorno. Senza un grido, i primi plotoni scattano e si lanciano all’assalto. Si scatena un inferno. Fiammelle di mitragliatrici lingueggiano d’ogni intorno, squadre intere cadono in riga, falciate dalle raffiche a ventaglio. Una compagnia va all’attacco otto volte di seguito. La mischia è generale, coinvolge fanti del 49º e del 36º fanteria, alpini di parecchi battaglioni, in testa i friulani del Val Fella e del Gemona, bersaglieri, cavalleggeri, artiglieri. Come ricordarli tutti? Il combattimento è nuovo per i nostri, si svolge su terreno aperto, senza trincee e senza reticolati, è l’urto classico di chi vuol liberarsi da una stretta mortale, è la battaglia di Leonida alle Termopili: ma il nemico ha avuto il tempo di scegliersi le difese, ha coronato di mitragliatrici le creste, spara da posizioni dominanti, è, in una parola, il padrone della situazione.

Il combattimento dura tutta la giornata. Alle sedici i nostri sparano gli ultimi caricatori, quelli tolti dalle giberne dei morti. Il fuoco ha un’ultima ripresa, poi cessa. Nel silenzio che le ombre della sera fanno più greve, echeggiano i comandi dei graduati tedeschi che incolonnano i nostri prigionieri. A notte, una gran pace regna sulla montagna. “Ma se gridassero meno questi Italiani” brontolano i Prussiani che hanno acceso il fuoco per scaldarsi; canterebbero volentieri un bel coro, ma i lamenti dei nostri feriti lacerano le orecchie in maniera assai molesta. Se disturberanno ancora, li faranno star zitti con un paio di fucilate: “perché noi – dice un’appuntato a un prigioniero – di pane ne vediamo pochino, ma di cartucce ne abbiamo da sterminare l’universo”.

Basta. E’ venuta anche per i morti di Pielungo e di Pradis l’ora della pace. Sul poggio di Val del Ros, a fianco della strada che va verso Pielungo, un cimitero di guerra riconcilia nel sepolcro caduti della 63ª e della 36ª Divisione, Prussiani della Deutsche Jäger Division e Austriaci della 22ª Divisione Schützen.

Bari e frettolosi devono esservi i pellegrinaggi, a giudicare della stato dell’opera: la piramide commemorativa ha i fianchi screpolati e l’intonaco cadente, parecchie croci cono spezzate, in altre non c’è più la tabella di riconoscimento, non un fiore orna i tumuli, la pace di quei morti è disadorna. Li consola, ogni tanto, la pietà dei montanari, parecchi dei quali furono spettatori della battaglia.

Vi salimmo un mattino di domenica. La burrasca faceva gemere i rami e la pioggia infradiciava il pendio ch’era una pena stare in piedi. Non c’era nessuno: neanche la pia fanciulla di Pradis che Enrico Fruch, poeta friulano, aveva visto un giorno inginocchiata sotto il muretto. “Mitudis jù lis dalminis (zoccoli) di fùr – Preave une fantate sot il mùr“. Non c’era nessuno: ma la terra, intorno, pregava.

Cesco Tomaselli

dal Corriere della Sera del 17 dicembre 1929