Perlite Story

Alle cinque suona la sveglia. Sì, lo so che potrei anche svegliarmi un’ora dopo, ma mi piace troppo rotolarmi tra le lenzuola alla mattina e guardare il tempo scorrere sull’orologio mentre non faccio niente. Dopo più di mezz’ora mi decido e metto un piede a terra, poi l’altro.

Poi tutto ritorna a girare con la solita frenesia: doccia, barba, esco dalla camera d’albergo e scendo per la colazione. Il ristorante è ancora chiuso, gli altri aspettano ma io no. A testa bassa mi dirigo verso la porta: scrollata decisa e bussata nervosa, la porta si apre. Si affaccia una cameriera con la faccia stralunata che dribblo mugugnando un monin’ che sembra più una minaccia che un saluto, e mi fiondo verso il succo d’arancia abbrancando al volo due yogurt che un’altro cameriere ha appena appoggiato sul ghiaccio.

Dieci di minuti dopo ho una veloce riunione con la tazza del cesso, dopodichè marcio verso la hall dove consegno lo scontrino del parcheggio ad un commesso munito di auricolare il quale, con una faccia quasi più incazzata della mia, scompare dietro una porticina. Dopo cinque minuti compare in fondo all’edificio il parking boy, un’indiano in realtà più anziano di me che, visibilmente stravolto dal sonno, camminando di sghimbescio riesce miracolosamente a infilare la porta a vetri, trova la mia chiave frugando dietro ad un bancone e si avvia zoppicando verso il parcheggio sotterraneo. Lo aspetto alla sbarra d’uscita sperando che mi porti l’auto senza danni.

Appena esce lo blocco e m’infilo in macchina: dalla radio Abu Dhabi Classic FM spara un valzer di Chopin che mi dà la carica giusta per infilarmi nella fiumana di auto che passa di fronte all’albergo. Con fatica mi strappo dagli occhi gli ultimi brandelli di sonno per evitare, imbambolato, di superare i limiti di velocità. Gli autovelox e le multe mostruose sembrano essere tra le poche cose che qui funzionano all’occidentale. Altre cose molto occidentali sono il traffico soffocante della mattina e il cretino della macchina di dietro che lampeggia per farlo passare, che ti verrebbe voglia di aprirgli il cranio per vedere se nel suo cervello malato pensa che tu ti possa librare in aria, visto che stai viaggiando tra tre file compatte di automobili che si allungano a perdita d’occhio.

A Musaffah c’è da stare attenti per non tirare sotto gli indianetti che fanno la spola tra il quartiere residenziale (una versione araba di Quarto Oggiaro) e i negozietti che intelligentemente sono stati messi dall’altro lato della superstrada a sei corsie. Verso le sette sono nell’acciaieria in costruzione e mi dirigo verso il mio angoletto. Oggi il programma della giornata è dei peggiori: devo rimuovere cento metri cubi di perlite per effettuare un’ispezione dentro l’apparecchio. Qui ci va una spiegazione tecnica: la perlite è un materiale leggero come farina ed altrettanto sottile che si infila dappertutto, mutande comprese, ma quando cerchi di tirarlo fuori dal suo buco ha la stessa arrendevolezza del gatto quando gli fai il bagno. Il solo pensiero mi fa aumentare in modo esponenziale l’incazzatura già accumulata.

Ovviamente della banda di rincoglioniti che doveva essere pronta alle sei nemmeno l’ombra. Dopo le sette e mezza cominciano a comparire i primi indiani camminando come zombi. Non me la sento di prenderli a calci, visto che prendono cento euro al mese e mangiano un pugno di riso quando gli va bene. Appena arriva uno con l’aspetto del capo comincio a urlare come un forsennato: questo si becca la tirata e poi mi informa che lui è lì solo per aspettare il muletto, finisco di insultarlo e lo caccio via.

Dopo mezzora che sono lì a fissare gli indiani perdo la speranza di vedere qualcun’altro e mi decido a tirarli per i capelli nell’impresa. Dopo pochi minuti siamo avvolti in una nuvola di perlite e, nonostante mascherine ed occhiali, i poveretti cominciano a tossire soffocati e ad avere gli occhi rossi e lacrimanti. Impassibile mi ergo come uno scoglio a cui possano aggrapparsi e ricevere sicurezza, ma quelli non ci pensano nemmeno e se ne scappano distanti. Dopo qualche ora di tira e molla siamo riusciti ad insaccare una ventina di metri cubi.

All’alba delle undici finalmente arriva il supervisore, ed ho almeno la soddisfazione di vederlo un poco preoccupato quando comincio a raccontargli la mia opinione sui possibili mestieri esercitati da sua madre e da suo padre. Lui mi garantisce che il lavoro andrà avanti spedito, e decido di abbandonarlo al suo destino mentre mi occupo di lavori più umani. Dopo due ore e mezza torno e trovo la banda intenta a osservare poeticamente le nuvole: da un rapido sguardo posso notare che la quantità di sacchi riempiti durante la mia assenza è pari a zero. Torno dalla crapa vuota che dovrebbe comandare i disperati ed esprimo il mio parere anche su tutta la sua parentela, dopodichè chiamo il padrone degli sciamannati e lo rendo edotto della mia conoscenza di insulti e bestemmie in lingua inglese: lui concorda che sarei in grado di dare lezioni in merito.

Nella mezzora abbondante che spendo ad abbaiare contro i capi degli impediti, questi hanno miracolosamente ripreso vita ed hanno insaccato un’altra decina di metri cubi. Tra urli e calci passo il pomeriggio, ma devo fare i conti con la mia resistenza fisica: la perlite si è ormai stratificata sulla pelle e sui polmoni, gli occhi sono due palle rosse e la gola mi sembra di carta vetrata. Faccio una pausa per preparami a motivare anche il turno di notte, dopodichè verso le nove e trenta rientro in albergo, barcollante e bianco come un pupazzo di neve.

In stato di semi incoscienza riesco a fare la doccia, a mangiare e a parlare con Maria su Skype, e finalmente verso mezzanotte posso abbandonarmi alle lenzuola. Non so ancora che alle due e mezza l’operatore mi chiamerà per andare a smontare con urgenza una pompa che si è bloccata. Ma questa è già un’altra storia, per ora mi cullo nell’illusione delle cinque ore di sonno che mi separano da un’altra giornata di m£%@a!