Un copyright sostenibile

La biblioteca di Alessandria
Criminalizzazione dei giovani
Un sistema inefficiente
Per un mondo migliore

Il diritto sulle copie, o copyright, fu creato nel XVIII secolo con lo scopo dichiarato di proteggere gli autori di testi. In realtà più parti sostengono che esso non riguardò mai il pagamento degli artisti per il loro lavoro ma fu pensato da e per quelli che pubblicano. L’industria editoriale ha lavorato per tre secoli per sostenere il mito che il copyright è stato inventato da scrittori ed artisti. Ancora oggi essa continua la campagna per leggi contro la condivisione più dure, per trattati internazionali che obblighino gli stati ad adeguarsi alle più strette regolamentazioni sul copyright e soprattutto per assicurarsi che il pubblico non chieda mai chi questo sistema vuole favorire. In questo articolo voglio illustrare alcuni dei motivi per cui il sistema di copyright oggi esistente è sbagliato e vi suggerirò come può essere modificato per garantire sia il guadagno dell’industria che un normale accesso alla cultura.

La biblioteca di Alessandria

Tempo fa lessi un interessante libretto del professor Lucio Russo in cui si avanza l’ipotesi che in campo scientifico non ci sia sempre stato un progresso lineare, come molti si immaginano, ma che abbia avuto dei regressi anche notevoli. In base ai suoi studi, ad una fase di sviluppo in Grecia ed Egitto nei secoli precedenti alla nascita di Cristo, segue una decadenza negli anni dell’Impero Romano, dopo la quale passeranno quasi duemila anni prima che venga alla luce una civiltà in grado di comprendere le opere degli antichi scienziati.

Fu la civiltà greca ad inventare l’idea stessa di biblioteca, e nei primi secoli dopo Cristo la comunità di scienziati greci gravitó soprattutto intorno ad Alessandria, sede della famosa biblioteca creata dalla stirpe reale dei Tolomei, in cui i re egizi sognavano di racchiudere tutta la sapienza del mondo. Quando avvenne il definitivo azzeramento della scuola greca, ad opera principalmente dei romani, con la distruzione della biblioteca di Alessandria furono cancellate anche le ultime tracce dell’antico sapere. La rinascita del pensiero scientifico moderno, ad opera di personaggi come Leonardo, Copernico e Galileo, avvenne proprio grazie al recupero degli antichi testi salvati per puro caso principalmente ad opera degli arabi.

Oggi sembra che la storia stia ripercorrendo quei passi. Un’altra moderna signoria, Google, vuole ricreare il sogno degli antichi egizi con un progetto, “Google Books“, che si prefissa la digitalizzazione di diciotto milioni di testi da rendere consultabili in rete. E come allora un moderno impero, quello dei proprietari dei contenuti, vuole affossare questo progetto per difendere i propri interessi. Dopo che un accordo da dodici milioni e mezzo di dollari tra Google e gli editori sembrava aver riportato la pace, prima gli editori europei, che non hanno mai riconosciuto l’accordo, poi un numero sempre maggiore di piccoli editori americani stanno tornando alla carica per ottenere l’oscuramento del progetto, o il suo ridimensionamento in termini tali che ne farebbero perdere il senso e la forza.

Mi rendo conto che paragonare Google ai Tolomei e gli editori all’Impero Romano può apparire una forzatura, ma l’effetto finale di quanto sta avvenendo è per me comparabile. Per difendere i propri interessi oggi l’industria dei media di fatto impedisce l’accesso al sapere ad un numero sempre maggiore di persone che, per motivi economici o geografici, si trovano nell’impossibilità di disporre di contenuti indispensabili allo sviluppo della conoscenza. Nell’era digitale, in cui è possibile copiare e distribuire il sapere a costi sempre più bassi, una quantità sempre crescente di risorse economiche e umane viene impiegata per impedire questa diffusione. Sicuramente è possibile fare in modo che gli interessi della società possano convivere con quelli degli industriali, ma è altrettanto certo che le attuali barriere al sapere imposte dall’industria sono diventate insostenibili e un’azione è indispensabile per garantire lo sviluppo culturale e scientifico.

Criminalizzazione dei giovani

Per illustrare il secondo argomento mi faccio aiutare dal buon Lawrence Lessig il quale, nella prefazione al suo ultimo libro Remix, fa un’interessante osservazione riguardo la metafora della guerra utilizzata nella lotta alla pirateria, come la chiamano i difensori del copyright. In guerra c’è un nemico, una minaccia alla sopravvivenza, ci sono obiettivi, si riorganizzano le priorità in base alle nuove necessità e siamo disposti a sacrifici che normalmente non sopporteremo. La guerra enfatizza certe realtà e ne nasconde altre.

La cosa che viene nascosta dalla guerra alla pirateria dichiarata dall’industria dei media è che stiamo criminalizzando i nostri giovani in nome del profitto di pochi. Durante gli ultimi quindici anni negli Stati Uniti decine di migliaia di ragazzi sono finiti in tribunale con l’accusa di aver effettuato copie illegali di contenuti protetti, e di averle condivise con sistemi di file-sharing. Comunità di migliaia di persone create da Napster, Edonkey, Kazaa e ultimamente ThePirateBay sono state disperse perchè hanno condiviso “illegalmente” la loro passione.

Nonostante tutti questi sforzi negli ultimi anni la diffusione del file-sharing è aumentata di diverse volte, e sempre più gente, soprattutto giovani, ha deciso di compiere azioni illegali. Ma una volta compiuta questa, quante altre azioni illegali saranno disposti a compiere? Se la percezione diffusa è che l’illegalità è una condizione normale, cosa stiamo insegnando ai nostri ragazzi? Quale tipo di principi sosterrà la loro vita se un comportamento normale è giudicato criminale?

Milioni di euro vengono oggi spesi per combattere una guerra che non sarà mai vinta. Ed allora è il caso di chiedersi se davvero vale la pena di criminalizzare un’intera generazione in nome di un sistema di copyright costruito più di un secolo fa. Soprattutto per il fatto che esistono mezzi pacifici per ottenere gli stessi scopi, almeno quelli legittimi. Nel duemila, prima di abbandonare la partita, i creatori di Napster fecero alle case discografiche una proposta economica che avrebbe permesso al sito di continuare ad esistere e agli industriali di avere un guadagno, ma questi ultimi ne fecero una questione di principio e rifiutarono. Oggi decine sono i tentativi, da parte di queste industrie, di ricreare quanto era già esistente allora, tentativi quasi tutti falliti.

Gli autori hanno bisogno di incentivi per creare, questo è fuori discussione. Ma negli ultimi dieci anni sono state proposte diverse possibili alternative per garantire i giusti guadagni a chi crea un’opera d’ingegno, senza dover ricorrere alla criminalizzazione di persone: è giunta l’ora di considerarle seriamente.

Un sistema inefficiente

Un’altro motivo per cui il copyright risulta sbagliato, così com’è concepito oggi, è la sua inefficienza. Oggi un’opera di ingegno viene protetta automaticamente per settant’anni, che tra poco forse diventeranno novanta o potranno superare il secolo, il che significa che in questo lasso di tempo chiunque voglia riprodurla, anche in parte, deve chiedere il permesso ai detentori dei diritti. Il problema è che nella stragrande maggioranza dei casi rintracciare i detentori è difficile se non impossibile. Non esiste un registro delle opere protette, ne una lista dei proprietari dei diritti.

Per tornare all’esempio di “Google Books“, dei diciotto milioni di libri che Google intende digitalizzare il 16% è di pubblico dominio, il 9% sono protetti e tuttora stampati, ma il 75% dei libri è protetto ma non più stampato. Sono opere che non sarebbero accessibili altrimenti, di cui la proprietà dei diritti è molto spesso incerta, e la ricerca dei proprietari richiederebbe costi enormi. In ambito educativo notiamo come, nonostante i costi di digitalizzazione stiano diventando sempre più trascurabili, pochi sono gli istituti che si prendono il rischio di digitalizzare e rendere disponibili le loro biblioteche agli studenti, perchè i costi legali connessi all’operazione possono diventare proibitivi.

La situazione attuale è ridicola: la funzione primaria del copyright è di proteggere la vita commerciale delle opere, che dura generalmente pochi anni; non c’è alcuna ragione logica di impedire la riproduzione di queste quando lo sfruttamento commerciale ha termine, considerando anche il fatto che molti autori concederebbero il loro permesso. Negli Stati Uniti fino al 1976 per beneficiare del copyright l’autore doveva farne specifica richiesta, e fino ad allora la maggior parte delle opere era esente dai diritti d’autore. Il sistema fu abolito perchè pletorico e dispendioso in favore di un sistema sì più semplice, ma che oggi impedisce di fatto la diffusione della cultura attraverso i canali sempre più efficienti che abbiamo a disposizione.

Oggi la tecnologia ci offre mezzi molto economici per registrare ogni singola opera e, ad esempio, fare in modo che il diritto di copia scada dopo un tempo ragionevole se il proprietario dei diritti non richiede che vengano estesi: questo permetterebbe sia di rendere disponibili tutte quelle opere per cui nessuno rivendica i diritti, sia di conoscere esattamente il detentore di tali diritti.

Per un mondo migliore

I sostenitori del “copyright ad ogni costo” vorrebbero che le opere d’ingegno fossero sempre soggette ad un’economia commerciale, imponendo la monetizzazione di ogni scambio: anche la condivisione non commerciale è però altrettanto importante per lo sviluppo culturale generale e per il mantenimento della capacità stessa dell’uomo di creare, frutto di una complessa rete di condivisione e socializzazione che il commercio tende a soffocare ed erodere.

Mi faccio nuovamente aiutare dal libro di Lessig al fine di elencarvi altre possibili strategie per rendere il copyright socialmente sostenibile.

Deregolamentare la creatività amatoriale

Nel 2007 Stephanie Lenz filmò il figlio di un anno e mezzo che ballava sulle note di “Let’s go crazy” di Prince e caricò il filmato su YouTube. Dopo qualche mese la signora fu informata da YouTube che il filmato era stato rimosso su richiesta della Universal Music Group, e successivamente fu minacciata di una multa da 150.000 dollari se lo avesse diffuso nuovamente. Nel 2006 un signore della SIAE si presentò ad una festa di beneficenza per bambini bielorussi contestando un reato previsto dall’art. 171 della legge n. 633/1941, per aver eseguito un brano popolare senza preventiva autorizzazione dell’autore, bielorusso. Questi esempi rendono evidente quanto sia necessario distinguere tra uso amatoriale e uso professionale, in modo che la gente sia libera di riprodurre opere famose a scopi privati senza rischiare di incorrere in sanzioni. Alcuni tipi di utilizzo devono essere deregolamentati e liberi da ogni vincolo.

Semplificare le leggi

Le leggi sul copyright regolano il comportamento di chiunque abbia un computer, dai ragazzini fino ai nonni che fanno usare il loro computer ai nipoti, e non c’è nessuna garanzia che le leggi siano comprensibili o coerenti. Recentemente una sentenza del Tribunale di Milano ha stabilito che Sony, Disney e Universal possono impedire ai loro utenti di fare una copia di riserva dei CD acquistati, anche se questa possibilità è sancita da una legge. Questo significa che non esiste nemmeno una chiara interpretazione delle leggi e che l’utente, prima di compiere qualsiasi azione, dovrebbe consultarsi con una schiera di avvocati che riescano a districarsi nel labirinto dei regolamenti esistenti.

Chi voglia mixare la sua musica preferita con brani di film che gli piacciono deve ottenere il permesso di qualcuno, ma con le leggi attuali è estremamente difficile rintracciare i proprietari e capire come ottenere da loro l’autorizzazione. I regolamenti attuali sono stati fatti per essere utilizzati da avvocati, ma essi regolano il comportamento di quindicenni e quindi devono essere comprensibili a quindicenni. Le tecnologie a disposizione dei ragazzi li invitano alla creatività, permettendo di comporre ogni sorta di prodotto multimediale partendo dai contenuti digitali prodotti da altri, ma le leggi in vigore falliscono miseramente nello scopo di essere efficienti e giuste nei loro confronti.

La domanda che oggi dobbiamo porci non è quale legge può farci arrivare vicini all’obiettivo, ma se davvero un tale complicazione valga l’obiettivo che ci poniamo. Dovremo chiederci se possiamo ottenere lo stesso risultato in un modo più semplice e meno costoso per tutti.

Decriminalizzare la copia

Il mondo digitale vive di copie. Un computer per funzionare effettua la copia della stessa informazione diverse volte prima di presentarci il risultato sotto forma di testo, suono o altro. E difatti oggi una quantità incredibile di risorse viene spesa per criptare e decriptare le informazioni durante questi passaggi per evitare che qualcuno possa intercettarle nel tragitto. Diventa più costosa la progettazione di sistemi criptati, la programmazione che li deve sostenere e l’utilizzo in termini di energia per processori sempre più potenti che passano molto del loro tempo a impedire qualsiasi “furto” da parte di chi il computer l’ha comprato. Il tutto per impedire all’apparecchio di fare quello per cui è stato creato: trasmettere informazioni in modo efficiente ed economico.

Quando fu creato in Inghilterra, e per tutto il XIX secolo, il copyright regolava la pubblicazione, la ripubblicazione e la vendita dei testi. Pur chiamandosi “diritto di copia” non faceva menzione all’atto di copiare : era chiaro a chi dovesse essere applicato, e la maggior parte delle persone poteva tranquillamente utilizzare queste opere come meglio credeva senza paura di incorrere in sanzioni. Il cambio avvenne negli Stati Uniti all’inizio del XX secolo: da allora le leggi sul copyright divennero via via più complesse e omnicomprensive, fino ad arrivare alla situazione attuale in cui è praticamente impossibile non infrangerle durante le nostre normali attività quotidiane.

La legge dovrebbe identificare in modo chiaro e semplice gli usi per cui i regolamenti vengono applicati, in modo che in tutti gli altri casi sia chiaro che l’utilizzatore è libero da qualsiasi obbligo. Dato che gli apparecchi digitali creano copie per funzionare, molto spesso succede che tecnologie innovative non trovino sbocchi sul mercato perchè nessuno è in grado di predire se infrangano o no regolamenti sempre più complessi. Non dovrebbe essere necessario sprecare risorse o rivolgersi a stregoni per capire se un apparecchio è legale o meno.

Liberalizzare il file sharing

Come ho già detto prima, dopo molti anni di lotta al file sharing la distribuzione illegale di materiale protetto non è diminuita, e nemmeno si è riusciti a garantire un compenso agli artisti per questa distribuzione: questo significa che la strategia adottata negli ultimi dieci anni ha fallito l’obiettivo. Oggi esistono centinaia di proposte per regolamentare la tecnologia in modo da eliminare il file sharing, ed esistono anche schiere di avvocati vogliosi di eseguire il facile compito di portare in tribunale dei ragazzi e i loro genitori per la condivisione di contenuti protetti.

Ma la strada da seguire è cercare la strategia migliore per assicurare un compenso agli artisti e minimizzare la criminalizzazione dei giovani. Anche in questa direzione le idee non mancano: è possibile, ad esempio, autorizzare almeno un’utilizzo non commerciale del file sharing, magari imponendo delle tasse che diano agli autori un compenso ragionevole. Oppure è possibile creare un sistema di semplici licenze che, per una modesta cifra, permettano all’utilizzatore di acquistare il diritto a condividere l’opera digitale.

Questi cambiamenti possono alleggerire la pressione del sistema di copyright sulla diffusione della cultura senza limitare in alcun modo la possibilità dell’industria di ricavare profitti. I processi intentati contro i “pirati informatici” parlano sempre di furto o di danno economico, ma nessuno ha mai provato il fatto che facendo delle copie o riutilizzando materiale digitale si sia in qualche modo diminuita la sua capacità di generare profitti. L’originale è sempre dove stava prima ed invariata é la possibilitá dell’industriale di sfruttarla commercialmente. In compenso lo sviluppo culturale che il riutilizzo genera puó creare opportunità di guadagno per un’industria che abbandoni gli ideali monopolistici e voglia veramente essere innovativa.

Un ringraziamento particolare va a Bruno “Master” Belotti per i consigli e l’impegno profuso.