Open non è solo Linux

Le origini del software libero
Una scuola aperta
La condivisione del sapere
L’arte condivisa
La nuova informazione
Conlusioni
Bibliografia

Le origini del software libero

Il sistema operativo GNU/Linux, così come OpenBSD, FreeBSD, GNU Hurd, Darwin e molti altri, è composto da software libero (Free o Open Source in inglese).

L’espressione “software libero” sta a significare che all’utente sono concesse quattro libertà fondamentali [1]:

  • Libertà di eseguire il programma per qualunque scopo, senza vincoli sul suo utilizzo.
  • Libertà di studiare il funzionamento del programma, e di adattarlo alle proprie esigenze.
  • Libertà di redistribuire copie del programma.
  • Libertà di migliorare il programma e di distribuirne i miglioramenti.

Il movimento per il software libero nasce in contrapposizione alla nascita di regolamenti sempre più restrittivi per la protezione dalla copia del software quando questo cominciò a trasformarsi da accessorio funzionale ad oggetto di consumo di massa.

I software per computer sono nati inizialmente all’interno di comunità scientifiche, dove la condivisione delle idee era, e per qualche verso rimane, la norma. Molte scoperte scientifiche non avrebbero mai visto la luce se gli scienziati avessero adottato quello che oggi le grosse imprese tentano di far passare come “diritto” dell’inventore.

L’idea della protezione delle idee era nata in origine per difendere gli individui dalle prepotenze delle nascenti grosse aziende. Con il passare del tempo i diritti sono passati alle aziende stesse, che utilizzano il diritto di copia per impedire la libera concorrenza e mantenere il monopolio a svantaggio sia degli utilizzatori che dei possibili concorrenti, che si vedono esclusi dal mercato.

Questi diritti, sanciti dalle leggi sui brevetti e sul diritto di copia, dovrebbero comunque riguardare solo il prodotto finale, e non le informazioni che hanno permesso di ottenerlo. Queste informazioni infatti costituiscono il terreno che permette la nascita di altri prodotti dell’ingegno ove vi siano le risorse intellettuali adatte. I mezzi resi disponibili dall’era digitale permettono di portare queste informazioni a bassissimi costi dove possono essere utilizzate con profitto per il progresso di tutti. E nonostante l’opposizione di poteri economici sempre più invadenti molti ci stanno provando con ottimi risultati.

Una scuola aperta

Molti sono gli esempi di applicazioni aperte nel campo dell’instruzione, che non coivolgono direttamente il software. Un’esempio sopra a tutti è il sito del famoso Massachusset Institute of Technology [2] che mette oggi a disposizione di chiunque vi acceda 1100 corsi completi includendo una notevole quantità di materiale informativo, test di autovalutazione e documenti scientifici di alto livello.

Molti altri sono gli istituti che mettono a disposizione materiale didattico di buon livello: il sito Open Content [3] ne indicizza parecchi, ed altri se ne possono trovare esplorando la rete. Iniziative come queste nascono dalla convinzione che il sapere non possa rimanere patrimonio di pochi, altrimenti lo sviluppo dell’umanità intera sarà ostacolato.

Per contrastare i continui aumenti di prezzo delle pubblicazioni scientifiche, dove tradizionalmente venivano pubblicati i risultati delle ricerche effettuate in ambito accademico, sono nate alcune iniziative come la “Budapest Open Access Initiative” [4] nata nel 2002 o il progetto SPARC [5], creato dalla “Association of Research Libraries” negli Stati Uniti. Lo scopo è di rendere accessibile in modo libero e senza restrizioni queste informazioni a scienziati, studenti, insegnanti o chiunque sia interessato per accelerare la ricerca, arricchire l’insegnamento e condividere il sapere.

Oggi abbiamo i mezzi per duplicare e distribuire le informazioni a costi bassissimi ad un numero notevole di persone. Il risultato dell’adozione di un modello di sviluppo di tipo “chiuso” è stato l’investimento di quantità di danaro sempre maggiori per scopi esattamente opposti: l’esclusione dall’accesso al sapere a chi, pur avendo buone risorse intellettuali, non ha i mezzi economici per accedere al cosiddetto mercato globale.

La condivisione del sapere

Dal piano organizzativo di Bioinformatics.Org [6], un’organizzazione nata presso la University of Massachusetts Lowell, leggiamo:

“I fondatori dei movimenti del software libero e open source degli ultimi decenni hanno erroneamente creduto che gli scienziati lavorino in un ambiente dove tutto è condiviso, liberamente ed apertamente. Queste idee diedero l’immagine di un’ambiente ideale ed etico in cui il processo scientifico poteva avanzare, anche se sembra che solo i non scienziati stiano attivamente tentando di concretizzarlo …

Bioinformatics.Org è un’organizzazione scientifica che:

  • promuove l’approccio libero ed aperto in tutta la bioinformatica, non solo nel software;
  • procura risorse libere ed aperte per la bioinformatica
  • pratica l’approccio libero ed aperto nella ricerca, nello sviluppo e nell’educazione”

Leggendo il primo capitolo di questa presentazione uno si potrebbe chiedere come mai in ambiente scientifico siano ora necessarie queste precisazioni. Purtroppo anche nel campo della ricerca molto è cambiato dagli anni in cui le scoperte scientifiche erano liberamente condivise nella convinzione che solo in questo modo il genere umano avrebbe potuto progredire.

Dal sito di Science Commons [7], un progetto nato il 1 gennaio 2005 da Creative Commons, apprendiamo che “la ricerca dipende dalla disponibilità di database molteplici, provenienti da molteplici fonti, pubbliche e private, e dalla loro apertura ad essere ricombinati, esplorati ed elaborati agevolmente”

Tradizionalmente questo processo era sostenuto, negli Stati Uniti così come nei paesi più sviluppati, da una serie di politiche, leggi ed usanze:

  • in primo luogo il diritto americano sulla proprietà intellettuale non concedeva la tutela della proprietà intellettuale sui “meri fatti”…Un articolo scientifico poteva essere sottoposto a diritto d’autore, ma i dati su cui si fondava no
  • In secondo luogo, la legge degli Stati Uniti imponeva che anche le opere del governo federale che potevano essere sottoposte a diritto d’autore ricadessero immediatamente nel pubblico dominio
  • In terzo luogo, nelle scienze stesse, e in particolare nelle università, una forte tradizione sociologica – talvolta detta tradizione mertoniana della scienza aperta – scoraggiava lo sfruttamento proprietario dei dati

Nella società dell’informazione in cui viviamo questi tre principi si sono evoluti, così come si sono evolute le leggi sul diritto d’autore, generando un “attrito” giuridico che ostacola l’uso delle scoperte scientifiche e può condurre a scoraggiare l’innovazione.

Sempre il sito di SC ci informa che “sul piano legislativo, gli Stati Uniti stanno considerando e l’Unione Europea ha già adottato un “diritto sui database” che effettivamente concede la tutela della proprietà intellettuale sui fatti, mutando una delle premesse fondamentali della proprietà intellettuale: che non si possono mai possedere fatti o idee, ma solo le invenzioni o le espressioni prodotte dalla loro intersezione.”

Inoltre “i ricercatori con finanziamento federale sono incoraggiati a cercare un uso potenzialmente commerciale della loro ricerca. Le università sono divenute partner nello sviluppo e nella mietitura dei frutti della ricerca. Questo processo ha prodotto, in molti casi, dei risultati stupefacenti, convertendo la scienza nuda ed essenziale in prodotti utili per molte industrie. Ma, di conseguenza, il perseguimento della commercializzazione ha risalito la corrente, raggiungendo, in qualche caso, i livelli della ricerca e dei dati fondamentali”

Numerosi scienziati e società scientifiche hanno espresso una viva preoccupazione per quanto stà accadendo. E per contrapporsi a questo una comunità sempre più ampia si sta unendo a sostenere il concetto di Open Access per la letteratura scientifica, dando luogo ad un moltiplicarsi di iniziative: oltre alle citate iniziative di Biodinamics.org e Science commons possiamo trovare una Public Library of Science [8], una società di ricerca “Applied Biosystem” che rende pubblici banche dati sul genoma umano, numerose riviste legali pubblicate con licenze aperte. Tutto ciò nella convinzione che “il valore dell’informazione scientifica aumenta esponenzialmente se è connessa ad altra informazione scientifica, e si minimizza quando essa è tenuta segregata dal diritto.”

Un discorso a parte merita l’esperienza di Wikipedia [9], un’enciclopedia online, multilingue, a contenuto libero, redatta in modo collaborativo da volontari e sostenuta dalla Wikimedia Foundation, un’organizzazione non-profit. Nata il 15 gennaio 2001, costituisce forse il più riuscito esperimento di sapere condiviso con i suoi 1,8 milioni di articoli in più di 200 lingue diverse. Avrete il modo di approfondire l’argomento ascoltando la conferenza dell’amico Cantharsis oggi pomeriggio.

L’arte condivisa

[10] Nel 1556 nasce in Inghilterra l’ordine degli Stationers [editori-tipografi-librai], casta professionale a cui viene concesso in esclusiva il “diritto di copia” [copy right], quindi ha il monopolio delle tecnologie di stampa. Chiunque voglia stampare qualcosa deve passare al loro vaglio. Fino a quel momento era diverso, chiunque poteva farsi stampare copie di un’opera letteraria o teatrale, l’autore non si preoccupava perché non deteneva i diritti (che non esistevano), la cosa importante era che le opere circolassero e aumentassero la fama dell’autore, che in quel modo avrebbe intercettato i desideri di più committenti.Nel 1710 entra in vigore lo “Statute of Anne”, che è la prima definizione legale del copyright come si è continuato a intenderlo fino a oggi. La nuova argomentazione è che il copyright appartiene all’autore; l’autore, però, non possiede macchine tipografiche; tali macchine le possiede lo stationer; ergo: l’autore deve comunque passare attraverso lo stationer. Come regolare tale “passaggio”? Semplice: l’autore, nel proprio interesse a che l’opera venga stampata, cederà il copyright allo stationer per un periodo da stabilirsi.

[11]Nel 1790 il Congresso dei nascenti Stati Uniti d’America approvò un articolo della costituzione in cui si diceva che la legge “promuove il progresso delle scienze e delle arti assicurando per un limitato periodo di tempo agli autori ed inventori l’esclusivo diritto sui loro scritti e scoperte”.

Il limitato periodo di tempo, che originariamente era di 14 anni, rinnovabili per altri 14, è diventato molto prossimo al secolo ed il “monopolio limitato per stimolare la creatività ed il progresso della scienza e delle arti” è diventato un accessibile solo a chi dispone di buone fonti di finanziamento, ed è in pratica utilizzato dalle grosse industrie per impedire il libero mercato e mantenere regimi di monopolio altrimenti impossibili.

Sulla scorta di questi presupposti , che oggi vengono visti come lo stato “naturale” delle cose, il buon Faletti, intervistato dalla Stampa [12] a proposito della campagna contro le copie illegali che lo ha visto protagonista di uno spot televisivo, può dichiarare “Io invece penso che l’open source sia il sistema migliore per precipitare nella barbarie. Certe cose vengono fatte perchè esiste un’industria che le produce e investe senza un ritorno economico.” Verrebbe da chiedersi come abbiano fatto artisti come Michelangelo, Beethoven, Leonardo o Pascoli, a creare la loro arte senza il supporto di quei filantropi delle case editrici.

Fortunatamente non tutti la pensano a questo modo, e c’è chi pensa che l’arte vada comunque condivisa, e che un’artista possa mantenersi dignitosamente anche al di fuori dell’ala “protettrice” delle leggi sulla copia. Vale la pena di menzionare a tal proposito le licenze create dalla Creative Commons Foundation [13], fondata nel 2002 da un gruppo di avvocati, produttori cinematografici, impresari e pubblicisti nell’intento di applicare i principi della GNU General Public Licence della Free Software Foundation [14] a testi, film, audio e immagini. Queste licenze vengono oggi sempre più largamente utilizzate per la divulgazione di opere d’ingegno.

Visitando il sito Commoncontent [15] si possono trovare centinaia di link ad opere di tutti i generi, ma basta utilizzare un motore di ricerca su internet, digitando “open” unito a musica, film, libri o altro per trovare decine di siti che permettono di condividere opere e mettono a disposizione le loro risorse per la divulgazione. Google, uno dei più famosi motori di ricerca, ha intrapreso un ambizioso progetto [16] per l’indicizzazione e la digitalizzazione di qualsiasi opera in commercio, sia essa di pubblico dominio o meno. Per l’iniziativa Google ha già ricevuto la denuncia da parte di cinque tra le più grosse case editrici per violazione dei diritti di autore.

In Italia possiamo vantare diverse inizitive degne di nota; ne cito solo alcune:

  • Scarichiamoli! [17], un’iniziativa che :”nasce all’interno della comunità italiana di Creative Commons come un work in progress aperto al contributo di tutti.” Dal loro sito leggiamo ancora che : “Scarichiamoli! non si limita a promuovere, con il suo manifesto, la libera circolazione della cultura, spesso imprigionata nella logica del profitto per il profitto, ma cerca di sviluppare una collaborazione tra diverse realtà, affinché possano ricevere maggiore visibilità pubblica e possano difendere meglio le proprie posizioni, e mira ad infondere nelle Istituzioni e negli utenti, sempre più protagonisti di una rete che comunica e condivide conoscenza, una sensibilità allargata”
  • Wu-Ming [18], un collettivo di autori che ha prodotto diversi libri di notevole qualità. In una loro intervista hanno detto che :”…la cultura e i saperi debbano circolare il più liberamente possibile e l’accesso alle idee dev’essere facile e paritario, senza discriminazioni di censo, classe, nazionalità etc. Le “opere dell’ingegno” non sono soltanto prodotte dall’ingegno, devono a loro volta produrne, disseminare idee e concetti, concimare le menti, far nascere nuove piante del pensiero e dell’immaginazione.Questo è il primo caposaldo. Il secondo è che il lavoro deve essere retribuito, compreso il lavoro dell’artista o del narratore.”…”E’ un atteggiamento conservatore pensare a queste due esigenze come ai corni di un dilemma insolubile.”La coperta è corta”, dicono i difensori del copyright come lo abbiamo conosciuto. Libertà di copia, per costoro, può significare solo “pirateria”, “furto”, “plagio”, e tanti saluti alla remunerazione dell’autore. Più l’opera circola gratis, meno copie vende, più soldi perde l’autore. Bizzarro sillogismo, a guardarlo da vicino. La sequenza più logica sarebbe: l’opera circola gratis, il gradimento si trasforma in passaparola, ne traggono beneficio la celebrità e la reputazione dell’autore, quindi aumenta il suo spazio di manovra all’interno dell’industria culturale e non solo. E’ un circolo virtuoso. “
  • New Global Vision [19], “un progetto che si propone di creare una rete di canali video online indipendenti e a costo minimo. Si sviluppa basandosi sulla collaborazione di persone che lavorano in rete e dalla rete partono per l’organizzazione del lavoro, la condivisione di conoscenze e risorse, la diffusione dei saperi necessari alla prosecuzione del progetto e alla veicolazione delle informazioni.”…”NGV si basa sull’uso di tecnologie e software di pubblico dominio che permettono di scaricare o pubblicare video. ”

La nuova informazione

E proprio l’ultimo progetto menzionato ci fà approdare a quella che è secondo me l’ultima spiaggia in materia di liberazione del sapere: l’informazione libera. Fin dalla nascita delle reti digitali sono nate comunità che si scambiavano informazioni dei più vari generi attraverso i Bulletin Boards (BBS) Usenet e le Mailing Lists; alcune di queste realtà costituirono vere e proprie reti informative alternative, anche se ancora ristrette a poche persone.

Alla fine degli anni ’90 negli Stati Uniti cominciarono a nascere siti web che potevano essere mantenuti da remoto aggiungendo ed organizzando i contenuti. Quasi subito fu coniato il nome Blog, contrazione di “Web Log”, per indicare i siti dove venivano pubblicate storie, informazioni e opinioni in completa autonomia. La struttura è costituita, solitamente, da un programma di pubblicazione guidata che consente di creare automaticamente una pagina web, anche senza conoscere necessariamente il linguaggio HTML.

Su queste pagine, solitamente tematiche, possono pubblicare sia gli autori del sito che i visitatori su argomenti che vanno dalle esperienze personali, ad hobby comuni, all’attualità, alla politica o altro. Alcuni in particolare hanno assunto la struttura ed il contenuto di giornali in rete dove ogni visitatore può pubblicare la sua notizia. Per citare qualche esempio:

  • Indymedia [20], è stato uno dei precursori, nato nel 1999 in occasione della riunione del WTO di Seattle si è poi diramata con siti in tutto il mondo legati alla rete “no global”;
  • Macchianera [21], divenuto famoso per essere aver diffuso la notizia degli omissi “virtuali” nel rapporto USA sulla morte di Calipari ben prima di ogni altro organo “ufficiale” senza poi esserne stato citato da alcuno;
  • PeaceLink [22], legato alla rete dei pacifisti;
  • Il Blog di Beppe Grillo [23], nato di recente ma già in grado di competere con edizioni on-line di famosi giornali come l’Unità o il Giornale.

L’accoglienza del giornalismo “ufficiale” a questa nuova forma di informazione “aperta” non è stata sempre delle migliori: in alcuni casi è stata snobbata come dilettantistica o inaffidabile, in altri casi addirittura criminalizzata in quanto connivente con il terrorismo [24] o paragonata alla stampa clandestina [25], salvo poi utilizzare notizie provenienti da questi siti senza citarne la fonte, come il succitato caso di macchianera.

Comunque sia i blog stanno assumendo sempre più importanza nel campo dell’informazione, e parecchie fonti indicano che sempre più giornalisti li consultano quotidianamente. Non sempre sono affidabili, molte volte sono autoreferenziali (blog che citano altri blog) ma costituiscono comunque una nuova voce nel campo dell’informazione, sempre più omologata sia in Italia che all’estero.

Sullo stesso piano si pongono le Telestreet [26], fenomeno tutto italiano nato dall’esigenza di contrastare lo strapotere dei monopoli televisivi nazionali. E’ una rete di televisioni da strada, circa 200 ad oggi, costruite con pochissimi mezzi (bastano 1.000-1.500 euro) e di limitata portata, raramente superiore al chilometro, che sfruttano bande di frequenza non utilizzate per trasmettere informazioni e documenti filmati: alcuni di questi li possiamo trovare sul citato portale di New Global Vision.

Si è recentemente concluso il processo [27] intentato dal Ministero delle Comunicazioni contro una di queste televisioni, e la sentenza è stata favorevole a quest’ultima, sancendo così il diritto a chiunque di poter usare, se pur in modo limitato, il mezzo televisivo per produrre informazione.

Conclusioni

Termino questa presentazione ricordando ancora che il modello di sviluppo aperto utilizzato per sviluppare il software libero non è un’invenzione di pochi pazzi idealisti ma è semplicemente il modo migliore di fare le cose. Nonostante i ripetuti proclami molte grosse imprese hanno fallito nel dimostrare di poter sviluppare prodotti migliori rispetto a organizzazioni che usano metodi di sviluppo aperto. Sono viceversa nate imprese orientate al profitto che hanno adottato con successo questi metodi

La differenza non è ideologica ma di sostanza: l’impresa moderna purtroppo, tutta presa dai meccanismi della concorrenza, ha dimenticato che la sua missione primaria è costituita dal prodotto ed in moltissimi casi riesce a produrre in modo efficientissimo merci perfettamente inutili o addirittura dannose. Le organizzazioni di volontari, pur dovendo fare i conti con gli stessi problemi di bilancio e gestione di risorse, hanno ben chiaro che lo scopo dei loro sforzi è l’efficacia del prodotto: noi qui oggi ve lo dimostreremo.

Bibliografia